VR sickness, la nausea da realtà virtuale

Tempo di lettura: 21 minuti

Viviamo nella cosiddetta epoca dell’Internet of Things, in cui il confine tra la realtà degli oggetti e dei luoghi concreti e la rete si fa sempre più labile. A tal punto che l’implementazione della realtà virtuale o VR in diversi ambiti – dall’industria video-ludica a quella militare – passa quasi del tutto inosservata.

L’abbassamento dei costi dei sistemi VR sta favorendo un accesso via via più distribuito e decentrato a questa innovazione tecnologica, diventata ormai un prodotto commerciale alla portata di tutti. Tuttavia, come tutte le più recenti invenzioni, porta con sé problemi di varia natura, anche congeniti, tra cui la cosiddetta VR sickness.

La VR sickness è un malessere fisico del corpo umano simile al “mal d’auto”, che però non è provocato da stimoli reali come il moto di una giostra o di una nave, ma dai segnali audiovisivi trasmessi dai sistemi VR.

È curioso constatare che una realtà virtuale, quindi non reale, sia in grado di suscitare in noi un’autentica reazione fisiologica.

Prima di approfondire il problema della VR sickness definiamo la realtà virtuale e alcuni fenomeni correlati.  

Che cos’è la realtà virtuale?

Con il termine “realtà virtuale”, abbreviato in VR dall’inglese virtual reality, ci riferiamo ad «una realtà simulata che permette all’utente di navigare in ambientazioni fotorealistiche in tempo reale e di interagire con gli oggetti presenti in esse», realizzato mediante l’utilizzo di computer e l’ausilio di interfacce appositamente sviluppate.

Inaspettatamente non si tratta di una tecnologia così innovativa. Infatti, i primi esperimenti sulla realtà virtuale risalgono al 1960, quando fu brevettata la Telesphere Mask di Morton Heiling. Si tratta di una maschera da collegare direttamente alla televisione e da applicare sul viso, capace di simulare l’illusione di muoversi in uno spazio tridimensionale. E non solo: è anche capace di stimolare il senso dell’olfatto mediante l’emissione di odori e sbuffi d’aria.

Telesphere Mask di Morton Heiling (fonte: Endgaget)

Pochi anni dopo, Ivan Sutherland crea la Sword of Damocles (“spada di Damocle”) che gli conferisce il titolo di padre fondatore della realtà virtuale. È un congegno VR composto da due tubi a raggi catodici ed elementi ottici che proiettano delle immagini generate al computer. Dal punto di vista applicativo è anni luce distante dal pratico e leggero moderno visore VR; poiché era un marchingegno molto pesante, era necessariamente corredato di un braccio metallico che, fissato al soffitto, lo teneva sospeso.

Si inizia a parlare di realtà virtuale soltanto alla fine degli anni Ottanta, quando Jaron Lanier fonda la VPL Research (da Virtual Programming Languages, tradotto in “linguaggi di programmazione virtuale”), una delle prime compagnie dedite allo sviluppo e alla vendita di prodotti di realtà virtuale.

E così la realtà virtuale non è più un concetto di fantascienza, ma una tecnologia ormai accessibile e ampiamente utilizzata, i cui impieghi sono molteplici. Considerato il potenziale valore di intrattenimento, trova la sua prima applicazione nel mercato video-ludico: infatti, non stupisce che i primi visori VR siano stati rilasciati dalle aziende di videogiochi nei primi anni Novanta. Tra i vari tentativi ricordiamo uno dei più grandi fallimenti di Nintendo, ossia il Virtual Boy, una console stereoscopica che proiettava negli occhi del giocatore le immagini tridimensionali dei videogiochi.

Il sogno della realtà virtuale prosegue e nel 2010 Palmer Luckey e John Carmack sviluppano il visore VR Oculus Rift, acquistato nel 2014 da Facebook per 3 miliardi di dollari. Il modello si differenzia dagli altri per la sua leggerezza e per essere standalone, cioè autonomo e indipendente in quanto non necessita di essere collegato ad un computer o ad una console per funzionare. Inizia così l’epoca d’oro della realtà virtuale.

Nel 2019 le entrate della cosiddetta X Reality – che comprende in sé la realtà virtuale, la realtà aumentata (AR) e la realtà mista – registrano un aumento del 26% per un totale di 5,68 miliardi di euro. Si tratta di una tecnologia rivoluzionaria potenzialmente capace di realizzare il sogno di tutti i gamer, quello di entrare in prima persona in un videogioco.

Virtual reality is an expansion of some mediums that were already used. First-person gaming for instance is nothing new, but first-person gaming where it fills your peripheral vision and you are actually turning your head instead of moving a joystick to look around is a completely different ballgame in terms of the level of immersion and the feeling of actually being a participant in that world; and what sort of elevates it as an experience beyond being parked in a movie theater watching a glowing rectangle.

[La realtà virtuale è l’espansione di mezzi che già venivano usati. Ad esempio, il gioco in prima persona non è nulla di nuovo, ma il gioco in prima persona in cui si riempie la tua visione periferica e tu muovi la testa invece del joystick per guardarti attorno è tutto un altro paio di maniche in termine di livelli di immersione e di sensazione di essere a tutti gli effetti partecipe di quel mondo; e questo è ciò che lo distingue come esperienza che va ben oltre il semplice stazionare in un cinema a guardare un rettangolo luminoso].

Alex Henning, Co-fondatore di Magnopus, in Sense of Presence: What is Virtual Reality di Unreal Engine

Siamo all’inizio di una linea del tempo immaginaria, in cui la rivoluzione della realtà virtuale è ancora soltanto agli albori.

L’architettura di un sistema VR pezzo per pezzo

Un tipico sistema VR è costituito da una combinazione di componenti software e hardware.

Le componenti software comprendono il database e il software di modellazione del mondo virtuale, mentre le componenti hardware si articolano in:

  • strumenti di output, che ci trasmettono segnali visivi, sonori e tattili per immergerci nell’ambiente virtuale;
  • strumenti di input, che invece inviano al sistema VR informazioni sulla nostra posizione e sui nostri movimenti.

Entrando più nello specifico, gli strumenti di output comprendono:

  • un visore VR (in inglese VR headset) a casco o sul modello di semplici occhiali, generalmente dotato di due display interni che visualizzano lo scenario dell’ambiente virtuale. Si usa il termine tecnico head-mounted display o HMD, per indicare lo schermo montato sulla testa dello spettatore mediante un casco ad hoc che può essere monoculare o binoculare.
    Ne esistono tre tipologie:
    • il PC VR o desktop VR è concepitp per essere utilizzato con il proprio computer, a cui è connesso via cavi USB e HDMI. Pertanto, la libertà di movimenti risulta limitata per ovvi motivi;
    • la tipologia wireless, chiamata anche standalone VR, é costituita da un computer in grado di funzionare in modo autonomo senza l’ausilio di ulteriori dispositivi;
    • e infine lo smartphone/mobile VR, che è sprovvisto del display per integrare al suo interno uno smartphone che elabori e visualizzi la componente video;
  • gli auricolari, spesso integrati nei visori, hanno la funzione di trasmettere i suoni all’utente.

Tra gli strumenti di input rientrano:

  • il sistema di tracciamento del capo (head tracking), che rileva la direzione e i movimenti della nostra testa. Serve per determinare la nostra posizione in rapporto all’ambiente virtuale e di conseguenza quale scena mostrarci tramite i display. In questo senso potrebbe essere paragonato al nostro sistema vestibolare, che è responsabile di trasmettere al cervello le informazioni relative al movimento e all’orientamento della testa nello spazio;
  • un controller/gamepad con la funzione di trasmettere i movimenti e i comandi dell’utente, sostituibile da wired gloves, cioè guanti muniti di sensori di movimento;
  • eventualmente anche una cyber-tuta, cioè una tuta che avvolge il corpo dell’utente e ne realizza una scansione tridimensionale da trasferire nell’ambiente virtuale.

Le varie periferiche si coordinano nella generazione di immagini, suoni e sensazioni tattili realistici al fine di simulare la presenza fisica dell’utente nell’ambiente virtuale. Si ipotizza che in futuro le periferiche potranno essere sostituite da sistemi collegati direttamente al cervello dell’utente in un’interazione definita wetware

Diversi livelli di realtà virtuale

In base al livello di coinvolgimento dell’utente nell’esperienza della realtà virtuale, è possibile individuare tre livelli di immersività:

  • il primo livello è quello realizzato dai Desktop Virtual Reality, programmi che simulano tridimensionalmente mondi reali o immaginari, ma visualizzati sullo schermo di un computer. L’utente interagisce con il mondo virtuale tramite periferiche, quali ad esempio mouse, tastiera o joystick e riceve input visivi e audio molto deboli se paragonati agli stimoli del mondo reale che lo circonda. Pertanto, il livello di immersività è molto basso;
  • il livello intermedio comprende i dispositivi Fulldome o Embodied Mixed Reality Learning Environments (EMRELE) che, tramite un’intensificazione degli stimoli sensoriali provenienti dal mondo virtuale, restituiscono un’esperienza più coinvolgente;
  • l’ultimo e il più alto livello è quello della Immersive Virtual Reality (IVR), in italiano “realtà virtuale immersiva”. I dispositivi IVRI sono in grado di generare un mondo virtuale che si spiega attorno all’utente e lo accompagna nei suoi movimenti. La navigazione in prima persona, la dinamicità della scena e la visione stereoscopica lavorano insieme per trasportare l’utente nell’esperienza virtuale.

A livello teorico dovrebbe essere possibile realizzare una realtà virtuale immersiva, in cui l’utente può usufruire di tutti i sensi umani. Tuttavia, le attuali tecnologie VR si limitano a stimolare i sensi della vista, dell’udito e del tatto, mentre gli altri vengono parzialmente trascurati.

La cognizione nella realtà virtuale

Nell’immersione in un sistema di realtà virtuale, siamo consci di non trovarci in ambiente diverso da quello fisico e che gli eventi che ci coinvolgono non sono reali. Eppure, spesso e inevitabilmente interagiamo in modo realistico con gli stimoli trasmessi, siano essi immagini, suoni o sensazioni tattili; e tali reazioni sono di natura sia psicologica che fisiologica, come hanno dimostrato diversi studi ed esperimenti.

Secondo Mel Slater, ricercatore dell’Università di Barcellona, il nostro coinvolgimento psicologico e fisiologico è determinato da due componenti: il senso di presenza e la Plausibility Illusion.

Il senso di presenza: come trovarsi lì ma non proprio

Il senso di presenza, in inglese Sense of Presence o Telepresence, indica l’impressione di “trovarsi lì” o l’illusione di “esserci”. Più precisamente è la sensazione soggettiva di trovarsi in un luogo fisicamente remoto e diverso da quello reale. Può essere distinta in presenza fisica, intesa come l’impressione nell’osservatore di essere trasferito materialmente in un altro luogo; e presenza sociale, cioè l’impressione di essere collocato in uno spazio in relazione a degli agenti virtuali (VA).

È accompagnato da una perdita del senso del tempo e dello spazio, che insieme agiscono favorendo un progressivo distaccamento dalla realtà. Slater riserva l’uso dell’espressione Place Illusion (PI) per indicare una sensazione più specifica: «la forte illusione di trovarsi in uno spazio nonostante la consapevolezza di non trovarsi lì». La Place Illusion descrive perfettamente il nostro stato mentale quando siamo immersi in una realtà virtuale.

Pertanto, il senso di presenza indica «il livello di realismo psicologico che un soggetto esperisce dall’interazione con il mondo virtuale, nel rapporto istantaneo con l’ambiente e nella coerenza della sua evoluzione rispetto alle aspettative ed alle previsioni». Ad esempio, ipotizziamo che ci troviamo in un ambiente virtuale e decidiamo di prendere in mano un oggetto rovente: sulla scorta della Place illusion, ci aspettiamo che sia incandescente e che quindi possa nuocerci.

Poiché il senso di presenza si riferisce al modo in cui la realtà virtuale viene percepita dal soggetto, esso dipende direttamente da diversi fattori congeniti delle tecnologie VR: i segnali multisensoriali trasmessi; l’accuratezza e la verosimiglianza dell’ambiente virtuale con quello reale; oppure, l’incarnazione in un avatar virtuale che sia realistico e reattivo ai nostri movimenti e comandi.

Plausibility Illusion: sta succedendo davvero?

Invece, la Plausibility Illusion (PSI), letteralmente “illusione di plausibilità”, si riferisce al nostro coinvolgimento psicologico e all’impiego delle nostre risorse cognitive rispetto agli stimoli dell’ambiente virtuale. È l’illusione che lo scenario rappresentato dal visore VR si stia effettivamente verificando.

Questo stato mentale è determinato da due fattori: da una parte, noi siamo e ci percepiamo come veri; e dall’altra, il mondo virtuale si relaziona con noi, che siamo e ci percepiamo come veri. Di conseguenza, lo stesso mondo virtuale è percepito sempre di più come vero. Richiamandoci all’esempio precedente, ipotizziamo di prendere in mano un oggetto rovente. Non solo abbiamo l’aspettativa che esso possa nuocerci, ma sulla base della Plausibility Illusion reagiamo d’istinto lasciando immediatamente la presa sull’oggetto nel timore di poterci scottare.

And in the back of my head I’m thinking “this isn’t real, this isn’t real'” but it seems so real. And there’s a robot that jumps out at the end and I jumped. Because your brain’s an idiot and VR fools it.

[E nella mia testa penso “non è reale, non è reale”, ma sembra così reale. Ed ecco che alla fine salta fuori un robot e salto anche io. Perché il tuo cervello è idiota e la realtà virtuale lo inganna]

Sam Macaroni, regista e attore, in Sense of Presence: What is Virtual Reality di Unreal Engine

La Plausibility Illusion dipende dalla capacità del sistema VR di produrre eventi credibili e interessanti, capaci di coinvolgerci e di richiamare le sensazioni che proveremmo in una situazione simile ma reale.

Sense of embodiment: come avere un corpo nuovo

Nella realtà è del tutto impossibile dissociarci dal nostro corpo biologico, per cui tutte le sensazioni che proviamo sono sempre percepite come congiunte ad esso. Al contrario, nella realtà virtuale è possibile divergere dalla prospettiva egocentrica del proprio corpo biologico attraverso una sua autorappresentazione virtuale.

Si parla di Sense of Embodiment (SoE) per indicare quella sensazione descrivibile come l’esperienza soggettiva di possedere e controllare un ipotetico corpo B che si manifesta quando le sue proprietà sono processate come se fossero proprie del corpo biologico. Tali proprietà sono il sense of self-location, il sense of agency e il sense of body ownership.

Il Sense of Self-location indica la percezione dello spazio occupato dal corpo B in cui si colloca il soggetto. Dobbiamo precisare che diverge dal concetto di senso di presenza concepito da Slater. Se il senso di presenza si presta a descrivere soltanto la relazione tra il soggetto e l’ambiente circostante, vuol dire che può prescindere dalla rappresentazione di un corpo; al contrario, il Sense of Self-location indica il rapporto tra il soggetto e lo spazio occupato dal corpo in cui si trova. I due concetti insieme costituiscono la rappresentazione spaziale del soggetto nell’ambiente virtuale. Mentre il senso di presenza dipende dalle contingenze sensomotorie del sistema VR, il Sense of Self-location è determinato dall’impostazione di una prospettiva visiva-spaziale egocentrica e dalla creazione di un avatar realistico e reattivo agli stimoli.

Il Sense of Agency descrive la percezione di controllo sui movimenti motori del corpo B. In questo senso, è dato dal confronto tra le conseguenze previste come effetto delle nostre azioni e quello che attualmente si verifica. Nella realtà si riscontrano spesso casi di Sense of Agency disturbato nei pazienti con la sindrome della mano aliena o anarchica. È un raro disturbo neurologico per cui una mano – in genere quella sinistra – sembra avere vita propria.

Infine, il Sense of Self of Body Ownership si riferisce all’atto di auto-attribuirci un corpo B e implicare che sia esso – e non il corpo biologico – la fonte delle nostre sensazioni.

Effetti indesiderati: la VR sickness

Nonostante la estesa implementazione della tecnologia VR, è emerso che l’utilizzo prolungato della realtà virtuale produce degli effetti indesiderati più o meno gravi. Ad esempio, gli schermi dei visori VR possono causare affaticamento degli occhi, perché si tende a sbattere di meno le ciglia; oppure, nei casi più gravi, alcuni soggetti hanno avuto spasmi o episodi di crisi epilettiche e svenimenti.

L’effetto indesiderato più persistente della realtà virtuale è la VR sickness, anche nota come Cybersickness (CS), cioè il malessere fisico determinato dall’esposizione ai contenuti VR. I sintomi più comuni sono:

  • affaticamento degli occhi;
  • mal di testa;
  • pallore;
  • sudorazione;
  • secchezza della bocca;
  • gonfiore dello stomaco;
  • vertigini;
  • atassia (un disturbo che consiste nella progressiva perita della coordinazione muscolare)
  • nausea;
  • vomito.

La manifestazione e la persistenza dei sintomi non conoscono una legge universale. Ad esempio, nello studio di Braithwaite e Braithwaite del 1990 6 partecipanti su un totale di 14 riferiscono di aver sofferto di mal di testa acuto per un periodo compreso tra le 2 e le 6 ore dalla fine dell’esposizione ai contenuti VR. Invece, nello studio di Tanaka e Takagi (2004) si rileva che la VR Sickness perdura per più di 30 minuti nei partecipanti che hanno sofferto di sintomi acuti durante l’esposizione ai contenuti VR; invece, ai soggetti che ne hanno risentito solo lievemente bastano 5 minuti per riprendersi.

La sintomatologia è simile a quella della chinetosi o cinetosi, nota più comunemente come “mal d’auto” o “mal di mare”, benché siano due disturbi diversi. La chinetosi è provocata dall’esposizione a moti (fisici o visivi) reali o apparenti, mentre la VR sickness rientra nella categoria delle Simulator sickness, perché è determinata dai difetti e dai limiti di simulazione della realtà virtuale.

Ad oggi costituisce ancora il più grande ostacolo alla produzione e all’adozione di tecnologie VR e soprattutto alla realizzazione di un sistema di realtà virtuale totalmente immersivo. Come osserva Thomas A. Stoffregen, kinesiologo presso la University of Minnesota, anche «con i sistemi VR contemporanei disponibili in commercio, l’incidenza della cinetosi dopo soli 15 minuti è compresa tra il 40% e il 70%».

Di chi è la colpa? Il corpo umano

Muoversi nello spazio

Il mondo che ci circonda è tridimensionale. In ciascuna dimensione possiamo muoverci in sole due direzioni (su/giù, destra/sinistra, avanti/indietro) e ruotare lungo tre assi perpendicolari. Si può dire che il movimento ha sei gradi di libertà, detti in inglese Degrees of Freedom, che nella realtà virtuale indicano il numero di variabili utilizzate per determinare con precisione la nostra posizione nell’ambiente virtuale.

Il cervello umano riconosce i movimenti, sia propri del corpo sia dell’ambiente esterno, mediante l’ausilio di tre sistemi:

  • il sistema vestibolare, cioè il sistema sensoriale responsabile di fornire informazioni relative al movimento e all’orientamento della testa nello spazio. Contribuisce al senso dell’equilibrio e all’orientamento spaziale con lo scopo di coordinare il movimento. È una parte dell’orecchio interno, composta da tre canali semicircolari, che rilevano i movimenti di rotazione, e dagli otoliti, che registrano le accelerazioni lineari;
  • l’apparato visivo, che mediante gli occhi acquisisce le immagini destinate ad essere processate dal cervello. Quindi il nostro sistema nevoso centrale, sulla base di una conoscenza pregressa, calcola la posizione e il movimento degli oggetti nell’ambiente rispetto al corpo;
  • il sistema somatosensivo, che mediante pelle, muscoli e articolazioni riceve informazioni sul corpo e sul movimento che compie nello spazio.

La VR sickness può essere riconducibile ad un responso fisiologico del corpo umano alla realtà virtuale. Sono varie le teorie che tentano di individuarne le cause.

Tutte le teorie sulla VR sickness

La teoria del veleno

La teoria del veleno (dall’inglese Poison Theory) spiega la VR sickness da un punto di vista evolutivo. La paragona alla reazione fisiologica dell’organismo umano che tenta di espellere sostanze tossiche dallo stomaco. Apparentemente il nostro corpo interpreta la discrepanza tra i segnali come se fosse un’allucinazione causata dall’ingestione di una sostanza tossica, che influisce negativamente sui nostri sistemi visivi e vestibolari; dunque, per porre rimedio tenta di rigettare l’apparente veleno auto-inducendosi lo stimolo del vomito.

La teoria è stata fortemente critica dal Joseph LaViola Jr., professore presso il dipartimento di computer science della University of Central Florida, perché di fatto non spiega due questioni: le differenze riscontrate negli individui e il motivo per cui la VR sickness non provoca sempre il vomito. 

La teoria dell’instabilità posturale

Nell’articolo An Ecological Theory of Motion Sickness and Postural Instability, Gary E. Riccio e Thomas A. Stoffregen espongono la teoria dell’instabilità posturale. Secondo gli autori, l’obiettivo comportamentale primario dell’essere umano è di mantenere la stabilità posturale, intesa come la capacità di controllo sui propri movimenti e sul proprio senso dell’orientamento. Tale facoltà è vincolata dall’ambiente circostante: ad esempio, quando procediamo su una strada cementata, la nostra stabilità posturale è integra, mentre è severamente compromessa quando camminiamo su una lastra di ghiaccio.

Le discrepanze tra comandi e movimenti all’interno dell’ambiente virtuale sono molto frequenti. Secondo la teoria dell’instabilità posturale, noi esseri umani interpretiamo tali incongruenze come una perdita di controllo sulle nostre azioni. Potremmo dire che viene compromesso il nostro sense of agency.

Dunque riassumendo, secondo la teoria dell’instabilità posturale, la VR sickness si innesca in quelle situazioni in cui un’entità, sia essa umana o animale, si espone per un periodo prolungato ad una perdita di controllo della stabilità posturale. Maggiore è tale esposizione, peggiori sono i sintomi.

La teoria del conflitto sensoriale

La teoria del conflitto sensoriale è quella più matura e accettata. Si basa sull’idea che il malessere fisico sia determinato dal conflitto tra i segnali trasmessi dai diversi sistemi sensoriali e dalla loro incongruenza rispetto al sistema nervoso centrale, che ha la funzione di prevedere i pattern sensoriali e di movimento sulla base delle nostre esperienze passate. I conflitti emergono quando gli stimoli sensoriali ricevuti sono diversi da quelli che prevediamo.

Ad esempio, la dissonanza tra i segnali visivi e vestibolari genera un fenomeno chiamato vection, che descrive l’illusione visiva di un movimento auto-indotto, cioè la sensazione di muoverci quando in realtà non ci stiamo muovendo.

Non tutti gli studiosi concordano sulla teoria del conflitto sensoriale, perché come la teoria del veleno fallisce nello spiegare alcuni fenomeni, come l’esistenza di differenze individuali nella suscettibilità alla VR sickness.

Differenze individuali nella suscettibilità alla VR sickness

Molte delle teorie sopracitate falliscono perché non sono universali, nel senso che non si applicano concretamente a tutti. Infatti, le reazioni all’esposizione di contenuti VR sono proprie di ciascun individuo e differiscono in base a diversi fattori.

Un possibile fattore discriminante è il genere: molti studi hanno dimostrato che le donne sono molto più esposte alla VR sickness rispetto agli uomini.

Questa differenza di genere potrebbe essere riconducibile ai diversi livelli di rilascio degli ormoni, oppure al fatto che i due sessi hanno una diversa visione periferica:

Le donne sono in grado di vedere con buona precisione fino a 45° dal centro del loro campo visivo (laddove gli uomini vedono già sfocato), e in taluni rari casi sviluppano una visione periferica che sfiora i 180°.

Focus.it

Ad avvalorare la tesi del genere, è emerso che l’incongruenza tra la distanza interpupillare dell’utente e quella di default impostata nei visori VR concorre tra i possibili fattori che causano la VR sickness. Si tratta di un malessere che colpisce più frequentemente le donne, forse perché – anzi sicuramente – i visori VR sono progettati su modello dell’uomo. Lo conferma uno studio del dipartimento di psicologia della University of Winsconsin-Madison: su un campione di 108 persone si è rilevato che circa il 90% delle donne ha una distanza interpupillare minore rispetto a quella di default dei visori VR; solo il 5% degli uomini hanno riscontrato lo stesso problema.

Un altro possibile fattore di difformità può essere l’etnia. Le persone asiatiche risultano molto più suscettibili alla VR sickness. Questo fenomeno potrebbe essere correlato ai maggiori livelli di rilascio della vasopressina (ormone che normalmente stimola il riassorbimento dell’acqua) registrato in queste popolazioni.

O ancora si individua un ulteriore fattore anche nell’età: la VR sickness sembra infatti colpire di più i bambini tra i 2 e i 12 anni e gli adulti sopra i 50 anni.

Relazione tra senso di presenza e VR sickness

Alcuni ricercatori della University of Waterloo, Canada, hanno condotto un’analisi su un ampio corpus di studi per dimostrare che esiste una relazione di natura negativa tra il senso di presenza e la VR sickness. Si è rivelato un lavoro complesso, perché ostacolato dalla tendenza dei ricercatori del settore a studiare le due variabili come se fossero due entità separate e perché la comunità scientifica è divisa tra chi sostiene che si tratti di una relazione negativa e chi il contrario.

Secondo la teoria della negatività, il senso di presenza è capace di ridurre considerevolmente la VR sickness. Più siamo convinti di trovarci nella realtà virtuale e più siamo concentrati sui nostri compiti, meno risultiamo sensibili ai fattori intrusivi come le carenze e i difetti della simulazione o il conflitto tra segnali emessi e sensi. Inversamente, sintomi come nausea, mal di testa e vertigini ci impediscono di concentrarci sulle nostre mansioni e di processare l’ambiente virtuale, limitando così il senso di presenza. Invece, secondo la teoria della positività, all’aumentare del senso di presenza corrisponde anche un aumento della VR sickness.

Di chi è la colpa? La tecnologia VR

Le cause alla base della VR sickness sono molteplici e non necessariamente circoscritte alle sole reazioni fisiologiche del corpo umano ai segnali trasmessi dal sistema VR. Infatti, possono anche riguardare le stesse tecnologie VR.

Il visore VR

Un importante fattore da considerare relativo ai visori VR è la frequenza di aggiornamento (in inglese, refresh rate). È un parametro che misura il numero di volte in un secondo in cui viene ridisegnata l’immagine sul display. È consigliato acquistare visori VR con un valore compreso tra un minimo di 60pfs e un massimo di 120 fps.

Quando la frequenza di aggiornamento risulta più bassa rispetto a quella con cui il cervello processa le immagini, ne consegue un ritardo nella latenza, cioè nell’intervallo che intercorre fra il momento in cui viene inviato l’input al sistema e quello di emissione dell’output. Il ritardo si traduce in una dissonanza tra i movimenti del corpo e le azioni nella realtà virtuale, che genera in noi un forte senso di disorientamento.  Al contrario, ad una elevata frequenza di aggiornamento corrisponde un’esperienza di realtà virtuale più realistica, riconducibile ad un incremento del senso di presenza.

Insieme alla frequenza di aggiornamento, anche la risoluzione grafica del display gioca un ruolo importante. Maggiore è la risoluzione, migliore è il grado di nitidezza o chiarezza di un’immagine, quindi migliore è la qualità dell’esperienza.

Per offrire un’ottima esperienza di realtà virtuale, è fondamentale dedicare massima attenzione anche al sistema di tracciamento del capo, perché è deputato a garantire la corrispondenza tra i movimenti reali e quelli virtuali. Più precisamente, il sistema di tracciamento definisce i gradi di libertà con cui è possibile muoversi all’interno della realtà virtuale. Generalmente i visori VR mobile hanno una rotazione di 3 gradi di libertà (3DoF), quindi non sono capaci di tradurre tutti i nostri movimenti nella realtà virtuale. Questa limitazione produce quella tipica discrepanza tra ciò che vediamo e ciò che percepiamo, da cui deriva la VR sickness. Al contrario i caschi VR con rotazione di 6 gradi di libertà sono in grado di replicare ogni movimento nello spazio, riducendo il malessere fisico.

Espedienti per muoversi nell’ambiente virtuale

Perché un’esperienza di realtà virtuale possa dirsi immersiva è necessario attivare almeno il senso di presenza nell’individuo, quindi l’illusione di «trovarsi lì» nel mondo virtuale. Come precedentemente detto, i sintomi della VR sickness distolgono l’attenzione dell’utente dall’ambiente virtuale, che rimane un’entità a sé stante in cui non è possibile compenetrare.

Un altro limite al senso di presenza è l’incongruenza spaziale tra l’ambiente virtuale e quello fisico in cui si trova l’utente. È frequente soprattutto nei videogiochi open world in cui ci si muove all’interno di un mondo virtuale, che va ben oltre i 4 metri quadri disponibili. La navigazione nel mondo virtuale va incontro ai limiti di quello reale.

In passato, la soluzione per permettere al giocatore di muoversi liberamente era la traslazione. Muovendo la levetta analogica del controller, il giocatore veniva sollevato di peso e spostato in un altro luogo virtuale, un po’ come si fa con i peluche nelle macchinette pesca pupazzi delle sale giochi. Nel trasferimento, il mondo virtuale scorreva velocemente davanti ai suoi occhi, ma il movimento non era percepito fisicamente, per cui ne derivava una discrepanza che generava nausea e altri sintomi della VR sickness.

Ad oggi si usa invece la tecnica del teletrasporto: sempre mediante la levetta del controller, il giocatore viene immediatamente trasportato in un altro luogo. Si elimina così la sensazione di finto movimento visivo, ma non quel primo attimo di disorientamento. 

Quali sono i rimedi per ridurre la VR sickness?

In primo luogo, il miglior consiglio è acquistare un buon visore VR, quindi evitare quelli:

  • con frequenza di aggiornamento inferiore ai 60 Hz (anche se è preferibile intorno ai 90 Hz), perché causerà una rappresentazione falsata del movimento;
  • con soli 3 gradi di libertà invece che 6;
  • con bassa risoluzione grafica;
  • e che presentano ritardi significativi o glitch.

Sempre in merito al visore VR, secondo i ricercatori Feiner e Fernandes della Columbia University è possibile ridurre gli effetti della VR sickness manipolando in modo dinamico ma discreto il campo visivo.

In più, noi stessi possiamo adottare alcuni piccoli accorgimenti soprattutto se siamo alle prime armi:

  • possiamo sederci, perché la posizione da seduti vincola i movimenti del corpo e in questo modo minimizziamo il senso di disorientamento;
  • tenerci freschi aprendo una finestra o posizionando vicino un ventilatore, perché uno dei sintomi tipici della VR sickness è la sudorazione;
  • esporci gradualmente alla realtà virtuale e in questo modo allenarci. È consigliato iniziare con sessioni di breve durata e aggiungere man mano 5 o 10 minuti in modo da abituare il cervello.

La VR sickness, un problema di tutti

Considerata la forza propulsiva di questa tecnologia, la VR sickness non è un problema esclusivo di alcuni settori, ma costituisce un ostacolo per il progresso della scienza in generale. Per questa ragione deve essere interesse collettivo risolverlo.

La realtà virtuale può trovare un impiego in tanti altri contesti oltre all’industria video-ludica. Ad esempio, nel settore dei beni culturali contribuisce alla trasformazione digitale dell’arte e dei musei; la tecnologia VR permette di abilitare nuove modalità di fruizione, come ad esempio le mostre virtuali senza opere fisiche, e di stabilire un dialogo con un pubblico più giovane e digitale e con le persone che per varie ragioni non possono fruire fisicamente di un’esposizione. All’epoca del covid-19, la realtà virtuale si è dimostrata un grande alleato dei musei e della cultura in generale.

La realtà virtuale si offre anche come strumento di supporto alla medicina e i suoi principali campi di applicazione sono:

  • la riabilitazione motoria e cognitiva: gli studi condotti dalla Duke University, Stati Uniti, hanno rilevato che l’impiego dei visori VR da parte di pazienti paraplegici aiuta nell’acquisizione di una maggiore consapevolezza del proprio corpo e nel recupero parziale della loro mobilità;
  • la terapia da disturbi psichiatrici: la realtà virtuale è un utile strumento per aiutare i bambini affetti da autismo nello sviluppo di abilità di socializzazione, come dimostra il programma creato dalla University of Texas at Dallas;
  • l’apprendimento in un contesto di simulazione: la realtà virtuale è l’ambiente idoneo per permettere ai giovani studenti di medicina di fare pratica.

In più, noi stessi possiamo adottare alcuni piccoli accorgimenti soprattutto se siamo alle prime armi:

  • possiamo sederci, perché la posizione da seduti vincola i movimenti del corpo e in questo modo minimizziamo il senso di disorientamento;
  • tenerci freschi aprendo una finestra o posizionando vicino un ventilatore, perché uno dei sintomi tipici della VR sickness è la sudorazione;
  • esporci gradualmente alla realtà virtuale e in questo modo allenarci. È consigliato iniziare con sessioni di breve durata e aggiungere man mano 5 o 10 minuti in modo da abituare il cervello.

La VR sickness, un problema di tutti

Considerata la forza propulsiva di questa tecnologia, la VR sickness non è un problema esclusivo di alcuni settori, ma costituisce un ostacolo per il progresso della scienza in generale. Per questa ragione deve essere interesse collettivo risolverlo.

La realtà virtuale può trovare un impiego in tanti altri contesti oltre all’industria video-ludica. Ad esempio, nel settore dei beni culturali contribuisce alla trasformazione digitale dell’arte e dei musei; la tecnologia VR permette di abilitare nuove modalità di fruizione, come ad esempio le mostre virtuali senza opere fisiche, e di stabilire un dialogo con un pubblico più giovane e digitale e con le persone che per varie ragioni non possono fruire fisicamente di un’esposizione. All’epoca del covid-19, la realtà virtuale si è dimostrata un grande alleato dei musei e della cultura in generale.

La realtà virtuale si offre anche come strumento di supporto alla medicina e i suoi principali campi di applicazione sono:

  • la riabilitazione motoria e cognitiva: gli studi condotti dalla Duke University, Stati Uniti, hanno rilevato che l’impiego dei visori VR da parte di pazienti paraplegici aiuta nell’acquisizione di una maggiore consapevolezza del proprio corpo e nel recupero parziale della loro mobilità;
  • la terapia da disturbi psichiatrici: la realtà virtuale è un utile strumento per aiutare i bambini affetti da autismo nello sviluppo di abilità di socializzazione, come dimostra il programma creato dalla University of Texas at Dallas;
  • l’apprendimento in un contesto di simulazione: la realtà virtuale è l’ambiente idoneo per permettere ai giovani studenti di medicina di fare pratica.

Come nel settore della medicina, la realtà virtuale si presta come strumento utile nell’ambito dell’istruzione. È una modalità diversa, ma più divertente e coinvolgente per imparare la storia, la geografia e tante altre materie. Ci ha pensato anche il team di Google for Education che, durante l’emergenza Covid-19 e la chiusura delle scuole, ha ampliato l’applicazione Google Arts & Culture e la sua raccolta di tour VR dell’applicazione Esplorazioni per la didattica immersiva.

immagine raffigurante una bambina che indossa un visore VR

Anche il progresso dell’astronautica dipende in parte dalle evoluzioni della tecnologia VR. La NASA fa grande affidamento sul suo laboratorio di realtà virtuale presso la Lyndon B. Johnson Space Center, Huston. La realtà virtuale si presta come modalità alternativa e complementare per simulare le cosiddette spacewalk (“passeggiate nello spazio”) per cui servono mesi e talvolta anni di preparazione.

La realtà virtuale permette ai candidati astronauti di pianificare le loro escursioni future presso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) e di familiarizzare con le distanze e con gli oggetti che andranno a toccare, come i corrimani. Ma non solo, li prepara anche a scenari di emergenza: ad esempio, che cosa fare se ci si allontana troppo dall’ISS? Nonostante sia una possibilità molta remota, li allena ad azionare uno jet pack chiamato SAFER che, tramite dei dispositivi di propulsione, li aiuta a muoversi nello spazio.

Come osserva Kim Libreri, Chief Technology Officer di Epic Games, la realtà virtuale non è altro che una nuova invenzione al pari del fuoco o dell’elettricità e come tale crea nuove possibilità fino ad ora inimmaginabili. Per poterle portare a compimento è fondamentale comprendere il potenziale di questa tecnologia e l’importanza di risolvere un problema tanto complesso e ignoto quale la VR sickness. Solo così sarà possibile sfruttare appieno questa risorsa.

Through the history of the human race whenever somebody finds a new piece of technology, whether it be – you know – oil, paints or fire or anything, it spurs a whole bunch of new creative possibilities. It gives us something that has only been possible in our mind before – you know, when you dream or when you imagine things, it allows that imagination really really to be sort of visually beam to an audience member, so that they can be part of that vision.

[Nella storia del genere umano, quando qualcuno scopre una nuova tecnologia – che sia essa petrolio, pittura o fuoco o qualsiasi altra cosa -, questa stimola un sacco di nuove possibilità creative. [La realtà virtuale] Ci offre qualcosa che prima era possibile solo nella nostra mente, quando sogni o quando immagini cose, e permette a quell’immaginazione di abbagliare uno spettatore, così che possa essere parte di quella visione.]

Kim Libreri, CTO di Epic Games, in Sense of Presence: What is Virtual Reality di Unreal Engine

Weech S., Kenny S., & Barnett-Cowan M. (2019). Presence and cybersickness in virtual reality are negatively related: a review. Frontiers in psychology, 10, 158

Slate M. (2009). Place illusion and plausibility can lead to realistic behaviour in immersive virtual environments. Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences, 364(1535), 3549-3557. ResearchGate

Geršak G., Lu H., & Guna J. (2020). Effect of VR technology matureness on VR sickness. Multimedia Tools and Applications, 79(21), 14491-14507. ResearchGate

Shafer D. M., Carbonara C. P., & Korpi M. F. (2017). Modern virtual reality technology: cybersickness, sense of presence, and gender. Media Psychology Review, 11(2), 1. ResearchGate

Ng A. K., Chan L. K., & Lau H. Y. (2020). A study of cybersickness and sensory conflict theory using a motion-coupled virtual reality system. Displays, 61, 101922

LaViola Jr J. J. (2000). A discussion of cybersickness in virtual environments. ACM Sigchi Bulletin, 32(1), 47-56. Computer Science at Brown University

Rahimi K., Banigan C., & Ragan E. D. (2018). Scene transitions and teleportation in virtual reality and the implications for spatial awareness and sickness. IEEE transactions on visualization and computer graphics, 26(6), 2273-2287. Department of Computer & Information Science & Engineering at University Of Florida

Kim M. (2019). Why you feel motion sickness during virtual reality. ABC News

Heaney D. (2019). How virtual reality positional tracking works. VentureBeat

Fagan K. (2018). Here’s what happens to your body when you’ve been in virtual reality for too long. Business Insider

Di Natale A. F. (2019). La realtà virtuale per l’apprendimento: vantaggi e problemi. Agenda Digitale

Lupetti M. (2020). Storia e usi della Realtà Virtuale. Dai videogiochi allo smart working. Artribune

Galdieri R. (2019, ultimo aggiornamento 19 novembre 2020). Cos’è il motion sickness VR – cosa c’è da sapere. Player.it

Valdarnini M. (2020). La Storia della Realtà Virtuale. Evolve VR

Vidiemme (2017). 10 usi della Realtà Virtuale

Studia Games (2020). L’industria del gaming regitra una forte crescita nel 2019. SAE Institute

Digital For Business. Realtà Virtuale: rivoluzione nel campo della medicina

An Qi ha conseguito una laurea triennale in Scienze umanistiche per la comunicazione tra mille lavori in nero, poveri stage milanesi e articoli di volontariato, perché senza ansia non riesce letteralmente a funzionare. Una volta bambina prodigio, esperta di corsivo e di ascoltare-le-lezioni-mentre-disegna-allegramento-sui-quaderni, oggi cerca di inabissarsi di impegni e di ansie per giustificare la paura del fallimento che la induce a procrastinare fino all’ultimo. Sarà per questo che ha ottime doti di multitasking? Però! però è anche una maniaca perfezionista, quindi il suo sporco lavoro, lo fa e pure bene sia in ambito universitario che lavorativo. Chiedete in giro. Da precisa gifted child quale era, non sa rispondere alla fatidica domanda: «Che cosa vuoi fare da grande?». Copywriter? Forse. Social Media Manager? Di una cosa è certa: TikTok è la sua ultima ossessione, ma è convinta che l’algoritmo ce l’abbia con lei. Magari la grafica? Deve soltanto trovare i soldi per permettersi un corso decente. Solo il tempo lo saprà dire.